di Arianna MICHETTONI

La fiaba è la grafia gentile e coraggiosa del rito di iniziazione. È l’ultimo incantesimo che sta tra la fanciullezza, spregiudicata e allegra, e l’età adulta, l’età stratega, l’età saggia, l’età cinica. Nella fiaba vince sempre chi più crede: non manca l’ardore, il coraggio, non manca la forza, è però la stella del vero credente a brillare, ad essere polvere magica, bacchetta della fata, potere dell’eroe. Eroe che salva la principessa, bellissima lei e rinchiusa in un castello, in una torre, in una cella; bellissima prigioniera, bellissima avvelenata, bellissima addormentata. Eroe che salva la principessa e solo lui, lui riesce dove tanti falliscono, non tentano, fuggono; eroe che vince e salva la principessa e rende la fiaba spavalda e fiera.




La fiaba è la grafia gentile e coraggiosa della fata turchina, turchina celeste, del lieto fine – una profezia che non si avvera allo scoccare della mezzanotte ma nei minuti di recupero; di un Mago, di un Leone, di un Re, di un Sergente aiutante del comandante-eroe, l’eroe che ha svegliato la principessa con un bacio, un bacio ad un trofeo, una coppa magica come il sacro graal del calcio e che tiene il respiro dell’eroe. Eroe a cui a volte manca il respiro, il respiro che manca a tutti i tifosi-lettori della fiaba; eroe che il respiro lo mette tutto in un urlo, l’urlo di tutti, l’urlo che spezza il sortilegio – per nove (numero mistico) volte lo spezza – e libera tutti, libera la principessa, libera la Lazio da chi la Lazio non ha mai voluto liberarla, anzi.




L’eroe Simone Inzaghi che libera la sua principessa Lazio e vissero per sempre felici e contenti, mentre gli specchi stregati ripetono che è la squadra biancazzurra la più bella del reame e non importa quale mela avvelenata verrà offerta sotto mentite spoglie, questa volta sarà un calcio – un tiro di esatta potenza e precisione, il tiro della rimonta, mostrato da Inzaghi prima ancora dell’esecuzione – a soddisfare le aspettative della fiaba che non conosce più la trama della disfatta ma la gioia della vittoria, del bene che trionfa sul male – o della Lazio che trionfa su tutti.

Essere la struttura narrativa di un rito di iniziazione, ora, è inserirsi tra le righe di una storia – di una competizione – che ha protagonisti e antagonisti che si inseguono in un grande gioco, del calcio e della vita, dove la fortissima morale del destino e del credente è sfidata non solo dall’avversario di turno – chissà se più forte, o più blasonato – ma dalla rinuncia alla poesia altrui, dalla vigliaccheria della critica sfiduciata, dal tenere occhi e cuore basso alla ribellione, al ribellarsi, mentre Inzaghi solleva le mani, le braccia, il volto al cielo del cambiamento che trasforma la vertigine in voglia di volare. A sguardo alto, allora, a cercare la stella protettrice, la luce della ribalta, a stare schiena dritta e petto in fuori per sovvertire l’ordine poco naturale – e di certo non solo magico, per quanta magia ci sia nell’impegno e nella dedizione – delle cose, delle situazioni – del “è così che va, la Juventus gioca un campionato a parte, un campionato dove spera non ci sia la Lazio”.
Simone Inzaghi, l’uomo solo com’è solo un eroe, l’uomo solo cioè l’unico, l’unico e il solo eroe della Lazio principessa o campo di battaglia, eroe pure di guerra se di combattere per i propri ideali si è trattato, eroe che oggi vince ancora e chissà, a rito di iniziazione finito, cosa è invece iniziato.






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