di Fabio BELLI

Sembra che per Senad Lulic le accuse di razzismo siano cadute ancora prima di essere avanzate. Meglio così, anche se negli ultimi due giorni, le voci che si sono levate per accusare l’uomo del 26 maggio hanno fatto riflettere molto.




Soprattutto quando un altro uomo forte, Giovanni Malagò, presidente del CONI e reduce da una campagna Olimpica che un po’ come la Coppa Italia del 2013 sarà senza rivincita, non ha perso tempo per dire la sua elogiando la “saggezza” dell’attuale Capitano dall’altra parte del Tevere. Difficile prendersela con i soliti moralisti e benpensanti che spesso si affollano sul carro della banalità, l’unico in Italia ad essere sempre più affollato di quello del vincitore.




Per aver dato del “venditore di calzini e cinture” a un avversario (frase per la quale la Lazio si è comunque formalmente scusata, anche perché certe cose a nostro avviso è meglio dirle quando si vince, per non dare adito a speculazioni) è partita una caccia all’uomo innalzando come esempio un giocatore avversario che no, proprio non ci va giù che venga assurto al ruolo di buon samaritano.




Sorvoleremo sulla frecciata “sembrava di giocare a Napoli”, perché la discriminazione territoriale è stata ritenuta valida solo finché non poteva danneggiare le grandi squadre che ne facevano più abuso. Non sorvoleremo su come era stato trattato il caso Mandzukic, definito “zingaro di merda” che, dai tempi del caso Mihajlovic-Vieira, è un’affermazione che nasconde solo un pittoresco sentimento di curiosità verso il mondo gitano e nient’altro.




Non sorvoleremo sui reiterati gestacci rivolti a curve che vengono spaccate in due, per timore di una violenza che se istigata dai ventidue in campo non viene neanche minimamente presa in considerazione. Tutto quello che arriva da una parte è sano sfottò, dall’altra si allertano procure federali e, in alcuni casi del passato, anche interrogazioni parlamentari. D’altronde questa coerenza la si vede anche nell’andare a piangere quando gli avversari esultano per le sconfitte dei rivali, quando in caso contrario appare invece lecito andare a fare avanspettacolo in diretta nazionale.




Di sicuro non sorvoleremo, tornando al tema centrale del razzismo che ha pervaso questa polemica, sulle parole che Luciano Spalletti rivolse al suo capitano quando fu colto nel sacco a parlare non di ciò che l’avversario vendeva, ma dell’etnia che rappresentava. “Gli dirò di mettersi le mani davanti alla bocca”. Come sempre, la saggezza toscana vince: la prossima volta faccia così anche Lulic, magari calcando la mano e sparando a voce alta ogni tipo di bestialità ben nascondendo il labiale. D’altronde, come dice un vecchio adagio popolare che sembra calzare a pennello: le scarpe si vedono, i pedalini no.




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