di Fabio BELLI

Le dimissioni di Sarri sono un po’ la storia di una morte annunciata, soprattutto dopo ieri sera quando, chi sa di Lazio, aveva fiutato l’odore di atto finale dall’epilogo grottesco, dall’ennesima filippica di Immobile alle lacrime di Luis Alberto, dall’infortunio ai confini della realtà di Provedel nel tentativo di fare il centravanti fino alla presunta scazzottata di cui Mandas sarebbe stato alla fine la più improbabile delle vittime.




Alla Lazio è così: un ultimo quarto di secolo bagnato da 14 trofei non è servito a cacciare via quell’aria da saloon di quando le cose vanno male, da Chinaglia che rincorre con un ombrello Menicucci fino ad arrivare a Di Bello sembra cambiato poco e invece di litri d’acqua (e anche di successi) sotto i ponti ne sono passati veramente tanti.

Eppure qualcosa sembra destinato a non cambiare mai, quell’attitudine gattopardesca a tramare per fare in modo che tutto cambi affinché in realtà tutto resti uguale. Impossibile pensare a come il progetto Sarri si sia incagliato dopo una stagione in cui tutto era andato come doveva andare, eppure gli eterni scontenti martellavano sulle “Coppe”, come se mettere da parte la demenziale Conference League fosse lesa maestà di fronte all’occasione di cogliere un secondo posto.

Se ne saranno fatti una ragione anche in società, dove però i proventi della Champions non sono stati sufficienti per convincere a sostenere un progetto che aveva bisogno di interpreti precisi. E qui forse entrano però in gioco anche le responsabilità di un allenatore a cui era eccessivo chiedere di farsi camaleonte, ma neanche si poteva restare bradipi immobili (stavolta Ciro non c’entra) rispetto a un 4-3-3 che sembrava sempre più insostenibile per caratteristiche dei nuovi acquisti e anche attitudini di senatori sempre più insofferenti.

Questo per onestà, la stessa di cui il mister si è dimostrato abbondantemente dotato lasciando sul piatto un ricco ingaggio fino a giugno 2025, pur di non sentirsi di troppo in un ambiente che è più che mai quello di Salisburgo, della squadra che su un aggregato di 2-5 a suo favore in trasferta decide di lasciare a terra una semifinale di Europa League. Serviva qualcuno, un dirigente, un direttore generale a mettere in riga un’autogestione che fa male solo alla Lazio. Sarà sicuramente contento chi nella sua mitomania si sente importante a pensare di aver solo minimamente influenzato questa decisione con qualche riga sui giornali. Magari ora si può sperare che torni l’allenatore “giusto”, quello che non ha problemi a dare il suo numero e si fa mandare i messaggini da giornalisti, speaker, imbonitori e piazzisti di water sparsi tra radio, tv e giornali, che non dimentica però nel contempo di andare a cena coi tifosi giusti al momento giusto. Il mister “amico”, che ovviamente però finché è qui non si può dire che lo sia veramente, eheheh quanto siamo furbi a frequentare la gente che conta senza darlo a vedere ma facendolo capire, ammicco ammicco.

È proprio lei, la famose cornice marcia che forse, per la prima volta, si è trovata di fronte uno che, a fronte di chi sbavava: “eqquannocerinuncialiquattromiooooni”, si è acceso una sigaretta, fatto una risata, e ha voltato le spalle, lasciando al loro destino i guitti che cercano da troppo tempo un like sui social e una riga sui giornali più di un gol in campo. È stata comunque una bella avventura, il “Sarrismo” a Roma: come diceva Edith Piaf, rigorosamente tutto attaccato, “Jeneregretterien”, mister.






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