di Arianna MICHETTONI (tratto dal Nuovo Corriere Laziale)

(riproponiamo un articolo che illustrava, già nel 2016, le criticità che rendevano e rendono impossibile la scelta dello Stadio Flaminio e dell’area in cui sorge per realizzare l’impianto di proprietà della SS Lazio)




Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate: deve esser inciso in un angolo nascosto dall’erbaccia, incrostazioni ed umidità, tra desolazione e incuria – un’iscrizione arrugginita; una patina di logoro e vecchio a ricoprirla, a ricoprire ogni centimetro di quel che fu. Fu lo Stadio Flaminio, trame di storia dello sport romano e nazionale già sul punto ormai di sgretolarsi: il passato, voler salvare le apparenze – la denominazione monumentale, il pregio architettonico e i vincoli archeologici. Poi l’assenza di manutenzione e le condizioni pietose in cui versa attualmente la struttura: degrado del calcestruzzo, corrosione delle armature metalliche, infiltrazioni ed ambienti devastati; il terreno di gioco ridotto a boscaglia incolta.

Il Flaminio, citando Giovanni Malagò, “vale zero”.




Pure se in base all’articolo 10 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, quest’ultimo è un bene di interesse artistico e storico sotto tutela dal 2008 (al compimento del mezzo secolo). E gli eredi di Pier Luigi Nervi, attraverso la fondazione omonima, detengono proprietà intellettuale e diritti morali sullo Stadio Flaminio, tanto da aver espresso più volte pareri contrari ai piani di ristrutturazione presentati dal Comune di Roma – si legga: non si è permesso alcuno stravolgimento o manipolazione di una struttura di interesse culturale, considerate pure le opere di prevedibile adeguamento cui sarebbe sottoposta la pregevole zona di Roma in cui è situato. «Vorrei evitare che, dopo la realizzazione di una proposta ponderata e calibrata di ampliamento del Flaminio, vista con occhio benevolo dai Beni Culturali, si arrivasse ad attuare soluzioni poco pratiche. Questo stadio è preso a modello per la gradevolezza architettonica e per la visibilità dagli spalti: spero non venga trasformato in un tendone», queste le parole dell’erede Nervi.




La legge Urbani ne impedisce la demolizione (l’idea immediata: la costruzione del nuovo impianto, in armonico ammodernamento del quartiere, sfruttandone le potenzialità della zona), le restrizioni dovute ai Beni Culturali e alle Belle Arti ne bloccano l’ampliamento – aumentare la capienza della struttura (fino a 37000 unità) è, o sarebbe, possibile solo mediante un abbassamento del terreno di gioco di 4,5 metri circa (una misura tale da consentirne il ricavo di un numero adeguato di posti): ciò comporterebbe però l’avvio di scavi che verrebbero immediatamente interrotti a causa dei certi ritrovamenti archeologici, data l’area su cui sorge lo stadio. Impossibile, ancora, ipotizzare l’edificazione di un secondo anello sia per rispettare il progetto originario e per non gravare con alcun peso sull’impianto: una elevazione della struttura correrebbe inoltre il rischio di venire bocciata dai Beni Culturali. Secondo la normativa vigente, dunque, è assai difficile rivitalizzare la struttura.

Poi c’è il grande sogno biancoceleste, il ritorno al mitico – o leggendario, per le narrazioni tramandate di generazione in generazione laziale – Stadio Flaminio, così carico di storia: l’autenticità di un sentimento che non conosce bonifica o restauro, ma non abbastanza da evitare che lo stadio possa costituire l’ennesima occasione di interventi meramente speculativi. Perché non il Flaminio? Una struttura concepita e perfetta per il gioco del calcio.




Tuttavia, riconosciuto il potenziale punto di aggregazione dal forte valore culturale e sociale, la scelta emozionale non può però essere priva di un’attenta, logica e razionale analisi commerciale: il valore delle tradizioni ha un costo che si aggira intorno ai sei milioni di euro per la sola ristrutturazione conservativa – restituirlo alle fattezze delle origini, con i limiti strutturali dovuti all’obsolescenza di un impianto pensato e costruito nella metà dello scorso secolo. Il restyling necessita del benestare pure di Renzo Piano, che mantiene un ruolo di supervisore sullo skyline dell’intera area, e per l’eventuale restauro occorrerebbero investimenti che variano tra i 35 e i 40 milioni di euro ottemperando alla manutenzione ordinaria e straordinaria, nel rispetto dei vincoli delle soprintendenze; per colpa delle decine di restrizioni che gravano sull’impianto, soprattutto, lo stesso non può diventare fonte di guadagno per l’impossibilità di organizzare attività collaterali a fini commerciali.

La Lazio quindi investirebbe in un progetto decine di milioni di euro, pur priva della proprietà della struttura, già vincolata, con un circondario non edificabile e nessun tornaconto economico. Lungi dal business plan ideato e fortemente voluto dal presidente Lotito – sull’orlo di una crisi di Nervi, quanto mai appropriato: trattasi di uno stadio polifunzionale, aperto H24, dove i bisogni delle persone vengano soddisfatti quotidianamente.
Una struttura moderna, architettonicamente suggestiva, agevole per gli spettatori, inserita in un piano viabilità consono al traffico della capitale, dove l’aspetto economico e commerciale sia tanto valorizzato quanto il valore storico del club – la presenza della sala trofei deve cioè coesistere con il negozio ufficiale: caratteristiche avulse al progetto Flaminio, avvolto nel fascinoso velo nostalgico – o troppo stretto nel suo passato, non funzionale ed antieconomico. Infine, l’ultima delle considerazioni: fin quando vi sarà uno stadio di proprietà del CONI, verso il quale le due squadre romane contribuiscono con i loro canoni d’affitto a quasi la metà degli introiti, l’impianto esclusivo biancoceleste o giallorosso è utopistico. Perché Roma avrebbe uno Stadio Olimpico utilizzato in pochissime occasioni, con un ricavo drasticamente ridotto.






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