Nel giorno dell’anniversario della vittoria del 26 maggio 2013, ospitiamo i racconti di cari amici e colleghi e dei nostri redattori su quella fantastica giornata. Un ricordo personale, esperienza di stadio e di vita, da parte di Jean Philippe Zito che fissa i 10 anni esatti dal momento del trionfo.




#Ilmio26maggio: Dieci anni fa, per l’eternità

di Jean Philippe ZITO

La consapevolezza di quello che stava per accadere, l’ho avuta compiutamente il giorno che ho acquistato il biglietto per la finale di Coppa Italia del 26 maggio 2013. Alla tabaccheria di Via Simone de Saint Bon c’erano due file ben distinte, separate e decisamente inconciliabili. Una cortina di ferro d’indifferenza che separava decine di persone appartenenti a due mondi, due stili di vita, due fedi, due culture opposte che si stavano letteralmente ignorando. Un mix di scaramanzia e “questione di ordine pubblico”, che riassumeva in una rappresentazione plastica l’importanza dell’evento. 

A sinistra i tifosi Laziali, a destra quelli romanisti. Una differenza antropologica tangibile, perfino ad un extraterrestre. Io e mio padre, diligentemente in fila, facevamo parte di quel nutrito numero di persone che avevano la priorità sull’acquisto degli ambitissimi biglietti, essendo abbonati. 

“Ammazza quanti Laziali che ci sono!?!”. Una ragazza, tanto carina, quanto sprovveduta, con questa esclamazione, tra lo stupito e il provocatorio, ha immediatamente catturato l’attenzione delle decine di persone in fila sulla sinistra, che fino a quel momento semplicemente non vedeva, o meglio, non voleva vedere coloro che stavano in fila a destra. Il dado era tratto. Da quel momento in poi, ghigni, sorrisini, frasi dette sottovoce, stavano abbattendo, mattone, dopo mattone, quel muro issato a fatica per quieto vivere.

La tensione racchiusa in poche decine di metri quadri, era l’antipasto del derby dei derby.

La prima stracittadina della storia che metteva in palio un trofeo. Uno scontro che avrebbe marchiato a vita gli sconfitti. Su questo eravamo tutti concordi. Bastava incrociare, anche per sbaglio, lo sguardo dei dirimpettai per cogliere quella (neanche tanto velata) sana paura. La sconfitta, questa volta, sarebbe stata “la sconfitta”. Un precedente che avrebbe condizionato la vita delle future generazioni di tifosi delle squadre romane.

“Da una parte ci sono i vincitori, dall’altra gli sconfitti. Tra poche settimane ci sarà chi festeggerà e chi piangerà”. Un signore, mezza età, completamente vestito con i colori sociali dell’associazione del 1927, senza essere interpellato da nessuno, scandì lentamente e con un tono di voce perentorio, un’ovvietà che pietrificò tutti all’istante.

Il silenzio era tornato l’unico protagonista, tra le teste che annuivano e le mani che nervosamente cercavano un qualche tipo di talismano.

Le settimane che ci introdussero a quel 26 maggio 2013, personalmente le ho trovate devastanti. In quei giorni mi ricordo di essere stato alla ricerca continua di un segno. Un messaggio celeste, che mi indicasse il risultato; una sensazione che mi potesse rivelare il futuro. Ricordo di aver perso un paio di chili, perché faticavo a mangiare. Non riuscivo a concentrarmi, sfogliavo almanacchi nella ricerca vana di algoritmi che mi anticipassero il risultato finale. Vittoria o sconfitta. Per sempre. Ricordo di essermi messo a piangere al supermercato, tra le corsie. “Sentivo” e “vedevo” in continuazione finali alternativi. Ma uno mi era rimasto impresso. Una foto di me e mio padre vittoriosi a fine gara. Un’immagine commovente che, con il senno di poi, è stata premonitrice. 

I romanisti, mai particolarmente attenti alla scaramanzia, già si sentivano la vittoria in tasca. Litri e litri di vernice erano stati acquistati per colorare di giallo-rossa “…tutta Prati fino a via della Pisana…”. Idem per la mia Via Merulana e Trastevere. Spavaldi, arroganti, i romanisti pensavano di ucciderci sportivamente, facendoci passare un altro 17 giugno del 2001. Tradotto: manichini appesi, bandiere alle finestre e sfottò di dubbio gusto, pronti a festeggiare denigrando la Lazio e i Laziali, più che incitando la propria squadra e i propri beniamini. Insomma, tutto il classico repertorio del tifo romanista.

Quel giorno, quel 26 maggio 2013, è stato uno dei giorni sportivi più lunghi della mia vita (nessun giorno mai batterà il 14 maggio del 2000 e la vittoria in tre tempi). 

Mio padre sembrava essere sicuro, fiero. Vedendomi così provato, era tornato a proteggermi. Io alla soglia dei 28 anni, mio padre alla soglia dei 75. 

A set-tan-ta-cin-que anni, come se nulla fosse, mio padre quel giorno si è fatto chilometri e chilometri a piedi per entrare allo stadio con me. In Curva Nord. Perché così ho voluto io. Noi, che eravamo abbonati nei Distinti Nord. Ma io volevo vivere o morire lì, nella Curva che da bambino mi ha fatto innamorare di questi colori. Nella Curva dove ho visto e continuo a vedere capolavori. Nella Curva che per ingegno e originalità batte sempre tutti 3 a 0. Nella Curva che ci trasforma in una falange invincibile davanti a qualsiasi nemico. 

Lì in piedi per ore, con il fratino della scenografia. Una parte blu, a fare da sfondo ad un capolavoro nel quale era raffigurato un aquilifero, un giocatore e un tifoso: “Hic Manebimus Optime”. Roma, i romani, in una frase. La Lazio e i Laziali figli di Roma. 

Dal 1900 la polisportiva che ha regalato a tutti i romani la possibilità di fare sport, senza distinzioni. Ente morale, oggi polisportiva più grande ed antica d’Europa con 45 sezioni.

Sapere chi siamo e quanto siamo importanti per questa città, non di certo avere la pretesa insensata di rappresentarla nella sua interezza…

Dall’altra parte il fratino era rosso. Se avessimo vinto, si sarebbe composto il tricolore nelle tre parti in cui era divisa la Curva. Un azzardo, secondo il mio punto di vista. L’ennesima intuizione, in realtà. Di fianco a me, mio padre. Fresco, riposato, mai visto così intrepido.

Io una larva umana, puzzavo anche. La partita la conosciamo tutti. Momenti concitati, molto nervosa e poi…Lulic al 71° minuto. La storia con la S maiuscola. Al triplice fischio un abbraccio infinito, lacrime di gioia e festeggiamenti. Tanti festeggiamenti, deliranti. Io resuscitato dalla terra dei morti, mio padre stanco, provato, ma felice. 

La serata passata con la mia compagna di sempre Giulia, mio padre e mia madre a festeggiare a “La Rustichella”, pizzeria all’epoca gestita da una famiglia Laziale che durante l’epopea Cragnottiana era un punto di riferimento per i calciatori della Lazio.

Caroselli, sbandierate e nelle settimane a seguire festeggiamenti in varie parti della città.

Con mio padre seduti sui gradini di Trinità dei Monti e presenti a San Silvestro per la presentazione delle maglie della stagione successiva.

Oggi sono passati 10 anni. Ci sono state vittorie, trofei, la Champions. Sono stati 10 anni che hanno visto anche una dura contestazione, che hanno visto sconfitte, ma anche una crescita esponenziale, che ci ha assegnato un ruolo da protagonista nel calcio italiano. Domenica prossima, in uno stadio tutto esaurito, festeggeremo la qualificazione in Champions League. Ricorderemo tutti insieme quel 26 maggio, con le lacrime agli occhi, gomito a gomito tra volti di un popolo che ne ha viste di tutti i colori, ma che continua giustamente a celebrare una vittoria per la quale non esiste rivincita.






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