Nel giorno dell’anniversario della vittoria del 26 maggio 2013, ospitiamo i racconti di cari amici e colleghi e dei nostri redattori su quella fantastica giornata. Emiliano Storace, direttore di Tuttobundesliga.it, è un grande esperto di calcio internazionale ma in quella giornata si è fatto guidare esclusivamente dal cuore:




#Ilmio26maggio: Con la forza di Petkovic e di Nonno

di Emiliano STORACE

In uno dei giorni più importanti della recente storia laziale, mi trovai a parlare da solo su una terrazza a Minori, a 294 km esatti dallo stadio olimpico di Roma. Lasciare la città era stata forse la decisione migliore. Ma non in quel giorno. Quel giorno non potevo lasciare da sola la mia Lazio. Difficile spiegare perché mi trovassi li, più facile comprendere lo stato d’animo di un tifoso che dopo una notte insonne e tormentata, alle cinque di mattina iniziò a contemplare l’orizzonte parlando con una persona lontana che di vigilie delicate come quella ne aveva vissute già tante. Il tutto era stato amplificato la notte prima da una finale di Champions League tutta tedesca tra Bayern e Borussia Dortmund. Un’altra finale, un altro derby. E proprio guardando quella finale, immaginavo come sarebbe stato il giorno seguente. La differenza tra la vittoria e la sconfitta. Quella tra vivere o morire.

Nelle settimane precedenti avevo ascoltato e letto di tutto. Dichiarazioni al limite della follia, frasi epiche, fantasiose rivisitazioni della storia. La città di Roma era una pentola pronta ad esplodere, o in un verso o nell’altro.

Questo vortice di sensazioni mi portò a percorrere il tragitto tra Salerno e Roma con gli occhi fissi sull’asfalto. Avevi annullato altre tappe. Dovevo tornare a casa, dovevo stare vicino ai miei colori. Il pensiero a volte era positivo e immaginava un tiro da trenta metri di Hernanes sotto la curva nord, a volte invece era negativo ed i brividi percorrevano tutto il mio corpo quando immaginavo un finale diverso.
Non potevo andare allo stadio ma avevo bisogno di sentirmi protetto dalla gente laziale. Decisi così di vedere la partita all’Atlantico Live, il posto ideale per stare insieme con 3000 persone indemoniate come me. Arrivai di corsa, entrai con il cuore a mille come se stessi salendo gli scalini dello stadio.

Chiunque non sia di Roma e non senta dall’infanzia questa passione, non può capire che significato avesse per tutti noi quella partita. In un momento delicato della nostra storia, tutto era contro di noi. Una Lazio che faticava a ricostruirsi, un avversario arrogante e protetto da tutti. La nostra storia si ripeteva. Eravamo sull’orlo di un ripido precipizio e come sempre dovevamo trovare le forze per non cadere giù.

30.000 laziali spingevano la Lazio all’Olimpico, 3.000 la spingevano all’Atlantico Live che sembrava una piccola curva nord.

Tra tante paure avevo due figure che mi guidavano e mi davano forza. Una era mio nonno, con cui avevo parlato ogni giorno e soprattutto quella mattina mentre guardavo il mare. I suoi racconti, la sua tranquillità, era come se fosse li al mio fianco. Per chi aveva vissuto gli anni ’60, gli anni ’80, le retrocessioni, gli spareggi e gli sfottò continui senza mai abbassare la testa, il suo sorriso era la mia forza. Era come se mi ripetesse: “ce la faremo tranquillo. Vinciamo come sempre”.

L’altra persona era Vladimir Petkovic. Mai una smorfia di sofferenza, mai un cedimento, sempre un sorriso positivo. In conferenza stampa, durante la partita, sempre. Ad ogni inquadratura, una maschera di tranquillità che aiutava tutti noi. Il suo volto paterno era come quello delle hostess che tutti noi guardiamo quando il nostro volo incontra una turbolenza. Abbiamo paura, ci giriamo verso di loro e quel sorriso ci rasserena. Petkovic era questo. Un condottiero che non aveva paura di niente e di nessuno. Un altro allenatore che metto di diritto nella storia della Lazio per meriti dentro e fuori dal campo.

Ogni minuto di quella partita è scolpito nella mia mente. Gli sguardi dei calciatori, gli occhi dei tifosi, le mani tra i capelli, la voce che se ne va. La palla che entra in rete, la corsa di Lulic, l’urlo di tutti i laziali, il sorriso di mio nonno che mi diceva: “te l’ho detto, andrà tutto bene”.

Come finì poi lo sanno tutti quanti. Pochi sanno che ricominciai a mangiare alle nove di sera dopo una giornata completamente a digiuno. L’ansia aveva lasciato spazio alla gioia, la mente aveva preso la consapevolezza da subito, che quella partita sarebbe stata immortale. Ora la Lazio era padrona di Roma. La storia aveva dato nuovamente il suo verdetto. Ed era biancazzurra. Ponte Milvio divenne la piazza della festa laziale. Piansi tanto, non mi vergogno. Non avevo mai vissuto in vita mia sull’orlo del precipizio. Quella vittoria aveva lavato via settimane di paure e mi aveva reso un vero laziale. Il gol di Lulic come quello di Fiorini. Stavolta anche io avevo avuto la forza di saltare fuori dal burrone quando tutto sembrava finito. Ai miei figli racconterò di quanto può essere bella e incredibilmente folle la passione. Racconterò di quanto sia bello essere laziali.






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