Stefano Di Chiara ha rilasciato un’interessantissina intervista al portale Gli Eroi del Calcio, con al centro i suoi tracorsi in biancazzurro, il periodo della Banda Maestrelli, i rapporti con Giordano e Manfredonia, l’esordio al Camp Nou contro Cruijff e, immancabilmente, quel famoso Roma-Lecce del 1986 vissuto con la maglia dei salentini.

L’intervista è di quelle appassionanti e piene di aneddoti, a partire dal racconto degli albori. Ecco le dichiarazioni rilasciate da Stefano Di Chiara ad Andrea Gioia:

“Le nostre generazioni erano basate su una sorta di selezione naturale. A quel provino c’erano solo ex giocatori della Lazio che giudicavano ragazzini del ’56, ’57, ’58. Mi portò mio padre. In mezzo a quei ragazzini c’ero io, Manfredonia, Montesi, Giordano etc. Da lì abbiamo fatto la gavetta giovanile fino alla prima squadra. Ricordo che giocammo una finale contro la Juventus e in bianconero c’erano Brio, Rossi, Marangon. Qualità altissima e nettamente superiore a quella odierna, con tutto il rispetto per i giocatori di oggi. Parlando della mia origine laziale, ti dico che nel mio periodo c’era 11 giocatori romani della Lazio e 11 giocatori romani della Roma. C’era D’Aversa, Sella, Bruno Conti, Di Bartolomei. I nostri unici stranieri erano Castellucci e Lombardozzi, due ciociari di Sora”.

Ci incuriosisce sapere, subito, se la passione laziale era una eredità di famiglia oppure una passione nata col tempo:

“Mio padre di calcio era un guru. Sapeva le caratteristiche di ogni giocatore. Ci parlava di Puskas, Valentino Mazzola. Sono orgoglioso che io e Alberto gli abbiamo regalato 30 anni di calcio vissuto intensamente, con grandi soddisfazioni. Prima di lasciarci mi disse la formazione del Grande Torino. Una cosa bellissima è stata. Lui ci ha trasmesso questa passione per questo gioco: noi siamo diventati giocatori grazie a lui“.

Capitolo Lazio prima squadra, con l’apertura dedicata al mitico esordio al Camp Nou, contro Cruijff:

“Le rose delle prime squadre erano fatte da 13 titolari e 5 più promettenti della Primavera. In quella partita di Coppa Uefa, infatti, giocammo io, Manfredonia e Giordano. Ci telefonarono a casa perché dovevamo andare a giocare a Barcellona. Emozione enorme. Dalle strade di Roma ad uno stadio con 110.000 spettatori. In quell’incontro, poi, Cruijff veniva anche premiato con il Pallone d’Oro. Incredibile“.

E poi Maestrelli, i campioni del ’74 e l’addio agli amati biancazzurri:

“Maestrelli era una grande personaggio perché riusciva a tenere unito quel gruppo là. Capiva di calcio perché tutti giocavano al posto giusto. Quella Lazio giocava solo con due difensori puri (Oddi e Wilson) e poi tutti attaccavano e difendevano. Come l’Olanda. C’era classe come con D’Amico e Frustaluppi, potenza come con Chinaglia. Giorgio era una calciatore molto carismatico. Ricordo che una volta perdevamo 1-0 all’intervallo; entrò nello spogliatoio, iniziò a incitare in maniera molto accesa e compagni e rientrò da solo in campo: vincemmo 3-1. Un’altra volta giocammo a San Siro contro l’Inter e lui diede un calcio nel sedere a D’Amico, colpevole di non averlo seguito nel pressing in fase offensiva. Per quanto riguarda il mio addio, dico solo che noi eravamo campioni con la De Martino, con la prima squadra e con la primavera. Poi hanno smembrato tutto. E’ morto Re Cecconi, è morto Maestrelli e poi Chinaglia è andato in America. Immagina che di quella squadra l’attacco sarebbe stato D’Amico-Chinaglia-Giordano. Io ho avuto la forza di riemergere. Bruno (Giordano), che per me è un fratello perché ci conosciamo da quando avevamo 12 anni, è stato sfortunato”.

Parentesi Lecce, squadra e città che sono rimaste nel cuore di Di Chiara grazie alla storica promozione in A:

“Il campionato a Lecce non ce lo volevano far vincere. Vincemmo perché eravamo una banda di giocatori incazzati. Io ero uno dei più grandi e dettavo un pò i tempi. A Lecce ho avuto Mazzone e Fascetti: allenatori importanti. Il mio Lecce era una squadra che la metteva sull’agonismo, come la mia Lazio. Eravamo una piccola realtà ma con gli attributi. C’eravamo io, Miceli e Orlandi che eravamo i tre anziani e, accanto a noi, una squadra di giovani come Rizzo, Luperto, Paciocco, mio fratello che ci sono venuti dietro a lottare”.

Roma – Lecce del 1986, partita storica che fece perdere lo scudetto alla Roma. Ci facciamo raccontare come andò l’incontro e come nacque quella grande prestazione dei salentini:

“Successe che all’andata, dopo la vittoria romanista, c’era stato un pò di sfottò. Noi ce la legammo al dito e al ritorno non volevamo fare brutta figura. C’era da onorare la maglia e dare il meglio. Poi mio fratello segnò l’unico gol di testa della sua vita, gli argentini giocarono al massimo, noi dietro eravamo difficili da superare. Una serie di fattori che ci portò alla vittoria. Quel giorno ci saranno stati 90.000 spettatori all’Olimpico. Tutt’oggi, purtroppo, è una ferita aperta per la Roma”.

Concludiamo con un giudizio sull’altrettanto grande Alberto (Di Chiara) e, come di consueto, sull’avversario più forte:

“Gli avversari più forti direi Giordano (giocatore immenso), Cruijff, Maradona, Chinaglia. Per quanto riguarda mio fratello, lui ha fatto grandi cose da campione vero. Però poteva fare molto di più perché ha giocato tutta la carriera da terzino, nonostante fosse una delle più grandi ali sinistre”.

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