di Fabio BELLI

Mi sono giustificato con me stesso in tante maniere diverse, non era niente di che, solo un piccolo tradimento, o… i nostri rapporti erano cambiati, sapete cose così… ma ammettiamolo li avevo bidonati, i miei cosiddetti amici. Di Begbie non me ne fregava un cazzo, e Sick Boy avrebbe fatto lo stesso con me se c’avesse pensato per primo, di Spud beh, d’accordo per Spud mi dispiaceva, non aveva mai fatto del male a nessuno lui. Allora perché l’ho fatto? Potrei dare un milione di risposte tutte false. La verità è che sono cattivo.”




Alla fine Simone Inzaghi si è chiuso la porta dietro le spalle, scrollandosi di dosso un qualcosa che per lui era diventato un fardello chiamato “Lazialità“, condizione permanente a patto di tifare per il più antico sodalizio della Capitale e non di farci affari dentro. In pochi sono riusciti a fare percorso netto, gente come Bob Lovati le cui “panzate” venivano citate nei film manieristi di Alberto Sordi negli anni Sessanta, passando dal ritrovarsi ad allenare un gruppetto di ragazzini capitanati da Vincenzo D’Amico ai tempi del calcioscommesse per poi ritrovarsi altri vent’anni dopo a Montecarlo da dirigente con un completo Versace ad alzare la Supercoppa Europea contro gli invincibili di Sir Alex Ferguson.

La Lazialità significa montagne russe e soprattutto non sarà mai quella normalità che il tecnico, si vedeva lontano un miglio, anelava ormai da due anni, con la parentesi di quell’incredibile cavalcata che senza la pandemia (che è però un fatto umano che ha riguardato tutti) avrebbe potuto cambiare la storia o, almeno, questa storia. Invece Inzaghi ha scelto la vita, è diventato come tutti gli altri: 4 milioni più bonus, conferenze stampa, tournée in Cina, niente più afonia da stress forse, anche se Milano è un altro cliente difficile ma Roma è Roma e non perdona, su questo nessuno può dire nulla. Dei suoi cosiddetti amici si era stancato da un pezzo.

Che le cose fossero cambiate e si fossero rotte definitivamente i più attenti lo avevano capito domenica sera: “Sono stato l’unico allenatore dei 16 agli ottavi di Champions in attesa di contratto, da 16 mesi aspetto il rinnovo e lo farò per altri 3 giorni, per altri non l’avrei fatto.” Un rinnovo che, come dimostrato dalle dichiarazioni rilasciate a febbraio dopo Lazio-Cagliari, era invece nel cassetto da tempo, mai davvero discusso forse per causare la reazione di Lotito, spesso impermalosito per molto meno, figuriamoci se si è ritrovato snobbato dal “figlioccio“. E in una trattativa, quando una delle due parti si fa pizzicare nel dire una palese bugia, piccola o grande che sia, non c’è ritorno: il tavolo è definitivamente saltato.




Ma Simone Inzaghi si trasforma in Mark Renton solo mercoledì scorso: prima avrebbe potuto scegliere una via onorevole come un De Zerbi qualsiasi, mettere le carte in tavola sui maggiori stimoli da trovare altrove. E invece ad accordo raggiunto, si era lasciato scappare sotto casa e in piena notte: “Resto e sono felice, è stata una bellissima serata, ci voleva, faremo una bella squadra, ci sarà da lavorare, ma sono contento che tutto si sia sistemato. Era quello che volevo. La firma? Ancora non c’è stata, ma lo farò domani mattina, siamo d’accordo su tutto. Tare? Ma con Igli siamo fratelli, è tutto a posto ora, ci siamo visti anche il giorno prima io e lui. Gli devo molto. Sono contento perché abbiamo parlato di tutto, con Lotito anche, è stata una bellissima serata. Alla fine è vero siamo una famiglia”.

Ma dalla famiglia, non bisogna certo arrivare a scomodare Freud e il suo “uccidere il padre“, si sa che prima o si vuole scappare per diventare grandi. E’ questo che ha ucciso lentamente l’inzaghismo che sembrava un baluardo intoccabile, nato in una notte di mezza estate di 5 anni fa da un’altra fuga, quella di Marcelito Bielsa. Inzaghi il laziale attorniato da uno staff di laziali, chi poteva negare che fosse una favola? Ma per crescere dalla famiglia si scappa, col contratto sotto gli occhi è arrivata la controproposta interista, probabilmente calibrata rispetto a ciò che la Lazio aveva già messo nero su bianco. Bisognava scegliere e Inzaghi dal suo punto di vista ha scelto la “vita”, intesa come l’offerta economica più alta, le prospettive professionali migliori, un ambiente meno isterico, una città più elegante. E noi? Noi sceglieremo sempre di non scegliere la “vita”. La ragione? Non ci sono ragioni. Chi ha bisogno di ragioni quando ha la Lazio.

“Ma questo cambierà, io cambierò, è l’ultima volta che faccio cose come questa, metto la testa a posto, vado avanti, rigo dritto, scelgo la vita. Già adesso non vedo l’ora, diventerò esattamente come voi: il lavoro, la famiglia, il maxitelevisore del cazzo, la lavatrice, la macchina, il cd e l’apriscatole elettrico, buona salute, colesterolo basso, polizza vita, mutuo, prima casa, moda casual, valigie, salotto di tre pezzi, fai da te, telequiz, schifezze nella pancia, figli, a spasso nel parco, orario d’ufficio, bravo a golf, l’auto lavata, tanti maglioni, natale in famiglia, pensione privata, esenzione fiscale, tirando avanti lontano dai guai, in attesa del giorno in cui morirai.






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