di Arianna MICHETTONI
Per favore, mettiamo da parte la retorica del “certi amori non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano”. Certi amori, infatti, non sono mai iniziati. Non un figliol prodigo da annunciare e nessuno per cui, metafora calcistica, sacrificare la vecchia maglietta di calcio, coperta da una patina di polvere e ricordi e chiusa in quel cassetto dove si chiudono anche i sogni.
Perché, pure per quella giusta onestà intellettuale che distingue il diritto di critica e opinione dalla più becera libertà di parola ed espressione, è quantomeno improbabile – i più cinici leggeranno impossibile – che un tifoso Laziale, anche uno solo, uno qualsiasi, conservi, tra camicie e felpe, la casacca di gioco di Wesley Hoedt.
Il bello che torna, il bello è che torna: sì, tralasciando il facile copiare e incollare di statistiche contenute negli almanacchi, il romanticismo calcistico di questa vicenda sta tutto in quella forza di volontà ormai merce rara, tanto da diventare sconosciuta e irriconoscibile e, perciò, svalutata dagli occhi disattenti. La volontà di chi ritorna solo andando via, perché la meta non è un posto, ma l’emozione di arrivare.
Rincorrere un pallone è un gioco, un gioco da ragazzi, un gioco di un’età istericamente compressa in un regolamento scritto da una penna che supera l’inventiva creatrice del misterioso caso di Benjamin Button: un gioco dove un mattino ti svegli e sei vecchio, vecchio per quel gioco da ragazzi. Alcuni allora decidono di giocare al rialzo, tradendo il sentimento di una Squadra (con l’iniziale maiuscola, quando si fa riferimento all’istituzione); altri, con gli occhi impastati, non si rialzano ma si sollevano, si recano al cassetto e lo aprono: e lì, rovistando, ritrovano la vecchia maglia di campionato forse con una piega del tempo trascorso – che a ben vedere è la piega del destino.
Così si diventa gli artefici del proprio destino, spavaldi nella sua trattativa: sfidando gli ostacoli, le divinità danarose, le opinioni avverse e infine qualche avversario: Wesley Hoedt li ha infilati tutti alle sue spalle, fino a formare di ognuno, un pezzo per volta, il suo numero di maglia. La maglia, quella quantomeno improbabilmente conservata da uno solo, uno qualsiasi, tifoso laziale e che, per astrazione del concetto di romanticismo – perché questa è una vicenda romantica – sarebbe bello per una volta regalare, bello come lui che si è regalato alla Lazio. E creare una nuova retorica: “certe gratitudini non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano”.