di Arianna MICHETTONI

Come un sole in miniatura: giallo, luminoso e tondo – caloroso e senza spigoli, non una linea retta con una destinazione ma due estremi che si toccano, chiusi in un abbraccio, forma rassicurante che include all’interno e protegge all’esterno e dall’esterno.




Come una sfera – due sfere – non sospese nel cielo ma sospese a mezz’aria, incastonate in un viso dalle molteplici sfumature; in movimento non nel cielo ma a mezz’aria, in una personalissima danza di alba e tramonto: si spostano, si fermano, si soffermano e poi girano, roteano verso l’alto – verso il cielo, alzare gli occhi al cielo nella tipica espressione (non di disappunto o disapprovazione) di raggiungimento delle cose in alto, poste in alto. In alto, come un pallone scagliato in alto, un colpo di testa a superare il portiere, e lo sguardo – piccoli cerchi – a cercarne la traiettoria, scansando quello che sta nel mezzo, frapposto, e le diottrie mancanti sono dimenticate, e l’identità di genere è dimenticata, e il posto che si occupa allo stadio (o nel quotidiano) è dimenticato, nel preciso e meticoloso atto dell’osservare tutto il resto è dimenticato.




Una manciata di secondi in cui tutto il resto è dimenticato o forse un giorno intero, non una manciata di secondi ma un grande accumulo di momenti a forma di sole in miniatura incastrato in un rametto e chissà ieri, chissà domani, tutto il resto è dimenticato in un giorno intero che è uguale per tutti: donne e uomini, mentre il pallone è scagliato in alto e il destino – e le doti difensive del difensore e il talento in attacco dell’attaccante – dilata le pupille e, in bella grafia, la scrittura e la percezione del tempo. Una percezione che non è donna o uomo, mentre lo stomaco sì, si ritorce, non per la musicalità (di cui tanto si è discusso) e melodia della voce femminile, quanto piuttosto per la direzione incerta, per l’insicurezza, per il calcolo delle probabilità che poco riguarda la traiettoria di un pallone scagliato in aria – lui, sì oggetto inanimato, ha la fortuna di far quel che vuole. In un risultato bidirezionale, due che si scontrano – come il pallone o la palla, due scelte per un risultato: si potrebbe tentare di indovinare, tentare un pronostico; la palla è donna e il pallone è uomo?




Certo, è uno sciocco esercizio grammaticale ed è una pretesa retorica ancora più sciocca – un oggetto inanimato eppure dotato della fortuna di far quel che vuole non ha sesso, o articolo determinativo (indeterminativo che sia). Nonostante gli occhi lì fermi a guardarlo, gli occhi tondi come sfere, cerchi gialli come il sole e le mimose: una questione di rotondità che, nel suo fine ultimo, crea identità verso – di nuovo – un oggetto inanimato confermandogli, quasi fosse un diritto inalienabile, un precetto preconfezionato, la natura che se ne sta prima e dopo di noi, la fortuna di far quel che vuole. Umani che creano l’identità delle cose e distruggono l’identità delle persone in uno sciocco esercizio grammaticale e ancor più sciocca pretesa retorica. In quella già descritta percezione del tempo incerta ed insicura: perché la percezione è femminile ed il tempo maschile. Anche in questo giorno, fatto di pallini gialli che devono – devono – ingigantirsi in palloni di ogni colore esistente, per ogni colore degli occhi esistente, gli occhi che guardano l’attimo resistente, l’attimo esistente allo stadio, in ufficio, in casa, fuori casa, alla stazione; l’attimo esistente tra gli occhi che guardano e le labbra che si aprono – finalmente, si aprono – e parlano, liberamente parlano, e tutti gli altri ascoltano, liberamente ascoltano, liberamente rispettano le parole ascoltate. Le parole, concetto animato, che hanno la fortuna di fare quel che vogliono.






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