di Arianna MICHETTONI (foto © Antonio FRAIOLI)

La teoria del pessimista. Ovvero: proprio nel pessimismo c’è la condizione essenziale, spicciola e cinica della felicità. Perché è non aspettandosi nulla dalla vita che, così dicono, si ottiene tutto, ed è nella rinuncia all’avere, cercare ed ottenere che si ha, si trova e si ottiene – il pareggio del Lecce nel primo tempo, ad esempio. Poiché però nessuna teoria è perfetta nella sua condizione teorica, il piacere sta nel confutarla o, accanendosi in un esercizio filosofico, il piacere sta nel postularne l’antitesi, l’anti-situazione ideale di felicità. E mentre il pessimista è sempre soddisfatto, appagato nei suoi te-l’avevo-detto o nella sorprendente e quasi mistica smentita paradosso di un’esistenza intera, i teorici dell’ultima ora (avventori della domenica allo Stadio Olimpico) stanno domandandosi il motivo per cui l’unico a non essere mai stato smentito è il buon Murphy – cari laziali, sappiate che se qualcosa può andar male, lo farà.

Si comincia con Lulic che raggiunge le 239 presenze, scavalcando D’Amico ed eguagliando Luca Marchegiani puntando a scalare il quarto posto in classifica di Puccinelli a 342 “caps” in biancazzurro. Partenza adrenalinica della Lazio, evidentemente nell’euforia di una nuova idea – innestata dal tifo biancazzurro – di vittoria: attaccare subito, giocare bene, comandare il campo. L’inizio non di una filosofia, forse, certamente però di una dottrina: la dottrina-Inzaghi, quella centrata sull’attrazione degli opposti – come una regola gravitazionale o una legge dell’equilibrio – per cui, per una squadra che tanto si muove in fase di impostazione di gioco, c’è un immagine e uno spazio-tempo speculare che ha i colori giallo-rossi del Lecce.
Già dopo 40 secondi è Correa a dare valore al gioco Laziale: rinomata tuttavia la sua avversione al pragmatismo, lui è un visionario che immagina il gol di difficile paragone e prestigio dove gli altri vedono l’impossibile. Appena un minuto dopo è Luis Alberto il “nemo profeta in patria” – dopotutto, Correa e Luis Alberto condividono l’astensione ascetica alla banalità; due irrazionali geni contrapposti alla razionalità di una difesa a 7 leccese.
Al 12’ continua la presa dell’area di rigore difesa da Gabriel: è Milinkovic ora a tentare l’assalto e la conquista – stavolta non per ordini ricevuti dall’alto, dato che è il suo tiro a finire alto sopra la traversa. E nell’ossimoro sacro-profano che è questa partita, pure il Lecce – Marco Mancosu – tenta per due volte il tiro in porta, prima su azione e poi su calcio di punizione, provando la possibilità di attaccare non attaccando, di capitare – nell’accezione imponderabile – di osservare pali e traversa altrui e non propri.

Poi però l’ordine naturale – o piuttosto ovvio – del rettangolo verde si trova nella formula Laziale: al 24’ è Lulic a mancare il gol servito dal calcio d’angolo di Luis Alberto. E però, trattandosi di ordine naturale, questo finalmente si ristabilisce al 29’ quando Correa massimizza l’assist del numero 10 biancazzurro: il gol, una veduta anticipata di un campione in essere, sintetizza la capacità profetica di chi col pallone conquista seguaci, fedeli e il giubilo delle folle. Una validità universale della filosofia Lazio, quella dei pochi e puntuali precetti: il gol del vantaggio è il successo di innumerevoli tentativi – di quel non mollare mai cantato, urlato a squarciagola, una preghiera e non un inno.
Nel primo tempo è solo Lazio – eppure, se di concetti fondamentali (perché di base alla teoria biancazzurra) ve ne sono pochi e certi, altro pilastro sta nella sofferenza degli occhi di chi guarda – laziali e non: al 34’ Immobile attacca; al 39’ il Lecce pareggia con Lapadula, che sfrutta una sponda di Rossettini su angolo di Calderoni. È così: al primo tiro subito, le probabilità di realizzazione sono direttamente proporzionali al gioco prodotto: meglio fa la Lazio, più subisce.
Tanto più che al 42’ è proprio Luis Alberto a fallire la perfetta occasione da gol del raddoppio e del vantaggio. Così si chiude la prima frazione di gioco, mentre il dubbio invalidante aleggia e tentenna la dottrina Lazio sotto il peso di una gigantesca e scomoda evidenza: tra il dire e il fare c’è di mezzo l’abitudine all’esultanza, momento di massima realizzazione teologica.

Il secondo tempo è perciò, vissuto dalla coscienza Laziale, come il dilatarsi di quarantacinque minuti di verità: teoria confutata o motivo per minimizzare la critica; trionfo della ragione o degli undici uomini che scendono in campo per una ragione; essenza ultima del campionato, per decidere il destino dei tifosi biancazzurri. Eppure si apre lì dove si era chiuso l’esperimento filosofico, l’idea di gioco della Lazio che fa da contraltare all’agonismo sterile di una vittoria ottenuta non solo per forza, quanto per fede. Al 48’ Luis Alberto tenta di testa, al 55’ Acerbi tenta di testa: tentativi di venirne a capo, di capo; di sbrigliare una situazione incoerentemente statica, poiché movimentata dall’azione Laziale. Finché al 62’, su taglio di Acerbi, si realizza l’impatto fulmineo di Milinkovic: la vivacità e la velocità dei padroni di casa viene ripagata dal giusto vantaggio, con l’abbraccio di gruppo che tanto somiglia al finalmente di sollievo di un’idea compiuta.

Eppure di dubbio si era parlato: così come è dubbio il rigore assegnato al Lecce al 66’, con Milinkovic che sembra innocente: controverso il fischio, il tiro di Babacar, la ribattuta di Strakosha – una modalità di assegnazione insolita, che trova nell’assurdo la sua giusta dimensione. Lapadula, già in area al momento della conclusione, viene pizzicato dal VAR, la sua corsa di gioia annullata. E però l’assurdo esclude la rigidità di una legge metafisica – quale è la Lazio, con i suoi precisi corollari. Perché di Lazio non si muore, vero, ma ci si ammala inguaribilmente: funziona come motto e come narrazione di una partita dove il rigore del Lecce viene annullato, e ne viene assegnato uno alla Lazio per tocco di mano. Immobile non fallisce il 102esimo gol (segnando dal dischetto al 75’), portando i biancazzurri sul 3 a 1. È festa all’Olimpico, gioia ritrovata e rinnovata, un “si può fare” ottenuto ed un 4 a 1 spettacolare di Correa all’80’, che sigilla la ricerca della felicità Laziale al termine di uno spettacolare contropiede orchestrato da Immobile.
All’85’, per dovere di cronaca, è La Mantia il nome soffiato dagli altoparlanti – nella quasi totale distrazione dell’Olimpico, che occhieggia il cambio Correa-Berisha.
Poi la partita finisce, in un’accettazione collettiva di condizione essenziale, spicciola e cinica di felicità.

IL TABELLINO

SERIE A

LAZIO-LECCE 4-2

Marcatori: 30′, 80′ Correa (LA), 40′ Lapadula (LE), 62′ Milinkovic (LA), 78′ rig. Immobile (LA), 85′ La Mantia (LE).

LAZIO (3-5-2): Strakosha; Patric (72′ Bastos), Luiz Felipe, Acerbi; Lazzari, Milinkovic, Leiva (51′ Cataldi), Luis Alberto, Lulic; Correa (86′ Berisha), Immobile. A disp.: Proto, Guerrieri, Vavro, Parolo, André Anderson, Lukaku, Jony, Caicedo, Adekanye.  All.: Simone Inzaghi.

LECCE (4-3-1-2): Gabriel; Meccariello (86′ Rispoli), Rossettini, Lucioni, Calderoni; Petriccione, Tachtsidis, Majer (70′ Shakhov); Mancosu; Lapadula, Babacar (72′ La Mantia). A disp.: Vigorito, Bleve, Riccardi, Vera, Benzar, Gallo, Imbula, Dubickas, Lo Faso. All.: Fabio Liverani

Arbitro: Manganiello (sez. Pinerolo)

Assistenti: Longo e Manganelli

IV uomo: Massimi

V.A.R.: Pairetto

A.V.A.R.: Di Iorio

NOTE. Ammoniti: 4′ Mancosu (LE), 34′ Leiva (LA), 59′ Lapadula (LE), 69′ Immobile (LA), 69′ Lucioni (LE). Recupero: 4′ st.

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