di Arianna MICHETTONI

Per quella strana legge murphica tutta laziale – tutta sbagliata, certamente – per cui ad ogni insolito dubbio, seppur velato, sul maltrattamento biancazzurro corrisponde un dramma esageratamente esagerato; per quella strana legge di pensiero univoco ed unilaterale – tutta sbagliata, certamente – per cui è proprio impensabile, del tutto inconcepibile, assai assurdo e un metodico, mediatico, no di negazione provare empatia per i colori della prima squadra della Capitale; per quella tanto grave quanto bizzarra aggressione ai danni di Ciro Immobile, il quale, beandosi di sole e salsedine, è stato costretto a difendersi da una tifoseria inesistente – e, di conseguenza, da una persona nulla: per ogni sfaccettatura che ogni situazione ha, per cui il rovescio della medaglia è solo l’altra faccia della medaglia e per chissà quale volere, ad ogni lancio di testa o croce non ci sia che gettare la croce sulla Lazio.




Così, se il bomber biancazzurro è al centro delle scene per un via di uno spiacevolissimo episodio, episodio da condanna unanime e da indignazione e dissociazione – silenziosissima, perché a chi mai importa di un coltello puntato? – accade che la pubblica condanna debba spostarsi di spiaggia in spiaggia, di protagonista in protagonista: allora si cessa istantaneamente di fingere di preoccuparsi della salute di un ragazzo – padre di famiglia, marito appassionato, retorica da romanzetto rosa – per gettare, di nuovo e ancora, il giusto imbarazzo (no, non quello del doversi schierare in difesa della Lazio) nell’ambiente capitolino. E il sole è lo stesso, il mare è salato, la sabbia scotta, e poi i bambini – l’innocenza dei bambini, empatia (questa sì) allo stato puro – chissà quanti intenti a gonfiare bracciolini o a costruire castelli di sabbia, chissà quanti estasiati alla vista di Marco Parolo che è lì a giocare a pochi metri da loro, da tutti, come tutti.




Dove sta, dunque, la diversa percezione? Ciro Immobile e Marco Parolo sono, nella sostanza, uguali. Entrambi violati. Uguali, appunto: due lati della stessa medaglia. Che è come asserire, con un pizzico di latente crisi esistenziale, che “se sei famoso certe cose devi aspettartele” – virgolettato perchè, nel riflesso che lo specchio restituisce ad ognuno di noi, è una frase-ombra che vela l’esistenza di ciascuno. Se sei famoso devi firmare autografi, scattare foto, sorridere roboticamente, privato della tua volontà, e se tentano di accoltellarti – beh, se tentano di accoltellarti, sei famoso. Quasi sempre il cattivo della situazione: poco importa che la fama non possa smontare la coscienza altrui – così come forse, invece, si vorrebbe.




Lo ha già chiarito la dolcissima Caterina Parolo, moglie del post-moderno cattivo delle favole: Marco Parolo non è un souvenir, non quando è padre e marito (e amico, che il rispetto dei ruoli non è mai abbastanza); Marco Parolo è uno degli uomini – non calciatore, uomo – simbolo della Lazio: usato dalla società come role model, garbato ai microfoni, con una capacità di linguaggio tali da rendere quanto meno ovvio – ad un bambino o ad un genitore arrabbiato – che il momento della firma su un pezzo di carta proprio non può coincidere con un momento di sabbia e pallone. Eppure, c’era da aspettarselo, la notizia è rapidamente arrivata ai media mainstream (o chi, in persona, li incarna) – chissà che un foglio non sia più tagliente di una lama.






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