di Arianna MICHETTONI

Poiché qualcuno ha deciso di dover ammantare la società contemporanea di un velo di ipocrita perbenismo, leggo, con fin troppo partecipe sgomento, il titolo odierno del Corriere dello Sport: “Ora Lulic rischia 10 giornate di squalifica”. Tutto molto interessante (una citazione non casuale, difficile da cogliere e che tornerà in seguito): una punizione così severa – esemplare in un pensiero che difende diritti e doveri con un impeto parziale e diversificato – fu sicuramente la stessa inflitta in passato alle ormai celeberrime, per chi di memoria ne fa buon uso, dichiarazioni giallorosse. Non può che essere altrimenti, sicuramente, certo: e infatti così non è stato. Qual è dunque il confine che separa l’insulto dalla goliardia, lo sfottò pepato dalla richiesta censura? La risposta è nota e assai facile: il confine lo stabilisce la trama (e la brama) di potere che una sola fazione ha in città, e non quella biancoceleste.




Non è che l’inizio di una disamina a freddo – come il piatto con cui va servita la vendetta – circa quella finta indignazione che ci esalta e ci costringe al ruolo di giudice: ma un buon giudice è sempre sopra le parti. Allora quel che ha detto Lulic, nella piena facoltà di intendere e volere, è anzitutto una risposta – un venire dopo, un re-agire, una conseguenza – all’arroganza boriosa di un giocatore romanista. Uno qualsiasi, sia chiaro: di quelli presi al sol fine di triplicarne il valore – che neanche Gesù con i pani e coi pesci – per crearne ad arte la plusvalenza adatta, neanche a dirlo, a risanare quel profondo rosso che è il bilancio della società giallorossa. Ma i giocatori qualsiasi vanno e vengono, le loro parole volano: chi resta, invece, a disputare l’eterna sfida tra roma e Lazio è lui, il simbolo, il “c’è solo un capitano”: modello di morale rettitudine, santo patrono degli onesti – il portatore sano dell’ignoranza mancante agli uomini di Inzaghi: Francesco Totti. Più prolifico nelle interviste che nei trofei vinti, vanta il maggior numero di pensieri spesi nei confronti dei primi della capitale – chiodo fisso di una carriera che ha ben poco altro da ricordare, se non il pregio di militare in una formazione di nascita coatta, successiva e cadetta. Del pupone però piacciono gli occhi grandi e azzurri, spesso zoomati ai limiti del dettaglio delle venature dell’iride; fa ridere, è infatti comico, è il re Mida al contrario: quel che tocca rovina, ma che importa, “so regazzi, giocheno!” lo giustificano i difensori con lupa al collo. Forse è vero, forse tanta pochezza comprensiva del fantastico, caotico mondo Totti è dovuto ad una mia ostinata e fiera chiusura mentale: in realtà quel che Francesco dice e fa ha un sostrato culturale più ampio di quel che appare.




Quindi, quando con fierezza Francesco Totti afferma: «meglio avere un figlio gay che laziale» il suo non è affatto razzismo, sessismo o, più propriamente, una contraddizione in termini – intervistato da “le Iene”, asserisce un “mi ammazzo se scopro mio figlio gay”; no, è evidente che il suo intento, sempre puro e innocente, è una difesa delle minoranze, una rivendicazione dei diritti omosessuali, una orgogliosa e commovente sensibilizzazione sulla realtà che devia dalla etero-normativa: come i laziali tutti si siano potuti offendere dalla più generosa delle elargizioni Tottiane è un mistero che ancora turba gli animi altrui, così prevenuti. Nessuna giornata di squalifica, anzi: è un argomento che Francesco ha sollevato con così tanta delicatezza che un mezzo busto eretto in suo onore mai avrebbe equiparato tanta gloria e magnificenza.

E nel pieno rispetto dell’avversario, il primo insegnamento fornito dal mondo del calcio, il buon Totti ha ancora dichiarato: «mi auguro che la Lazio fallisca». Pure qui, oh voi stolti che vi fermate all’immediato significato di una così semplice frase, è invece chiaro e lapalissiano il bonario augurio di una vita calcistica lunga e prospera, una serenità che solo il fallimento – con azzeramento dei debiti – può dare: chissà che in futuro non si possano attribuire al numero 10 pure delle doti predittive. Non si osi offendersi a questa sportiva, corretta e costruttiva affermazione, nient’affatto lesiva del tifoso o della storia centenaria – per chi può vantarne una – della Lazio: è chiaro che, di nuovo, nessuna giornata di squalifica è stata inflitta.




Perché Francesco Totti non ha mai parlato con l’intento di umiliare Floccari, Zarate o Reja: il suo ghigno faceva da sprone a migliorarli; così come chiaro era il suo interesse per il delicato ecosistema del litorale laziale, quando, dopo studi approfonditi sulla flora e fauna del posto, ha così parlato: «se sia giusto far volare Olympia? Meglio non rispondere sennò mi arrestano. Andasse al mare a farsi un giro, tanto gabbiani, aquile, sono tutti uguali». Perché mai queste parole sembrino sbeffeggianti, quando è chiaro che Francesco Totti, da eccelso ornitologo, abbia in testa solamente gli uccelli? Nessun tintinnio di manette, nessuna squalifica, anzi: pubblico plauso alle doti zoologiche del tanto versatile e carismatico capitano.

Ma l’apice dell’esaltazione del simbolo romanista sta in questa frase: «se mio figlio Cristian mi dicesse fra qualche anno che esce con una tifosa della Lazio a casa non ci rientra. Se mia madre avesse scelto la Lazio, penso che l’avrei ammazzata». Lungi dall’essere dichiarazioni oltraggiose, hanno in sé l’essenza stessa dell’attuale lotta contro la violenza sulle donne: Totti lo sa bene, tanto che di donna laziale ne ha sposata una. Ma lui è il capitano a cui capitano queste cose, o queste espressioni. Da non prendere mai, assolutamente, per nessun motivo sul serio e a cui non dare mai, assolutamente, per nessun motivo 10 – o anche 5, 3, 2 – giornate di squalifica; al bando la pubblica reprimenda.
Ora si può pensare che queste illuminate rivelazioni, impregnate di genio umano e calcistico, siano slegate dal loro contesto, è vero: tutto ciò va infatti inserito in rappresentazioni personali intente a scattare selfie – la lobby degli smartphone ringrazia –, a ciucciare dita – la Chicco ringrazia – e ad usare il pollice verso nei confronti di una curva intera – aspettandosi, probabilmente, che il laziale ringrazi.




Francesco Totti – e non solo – disse che la Lazio non è niente: sì, passerà dalla sua vita e svanirà dal suo orizzonte. Quel che resta è la sua tracotante, ingiuriosa attitudine arrogante: gli insulti agli arbitri, le simulazioni, le pesanti e continue provocazioni ad un intero ambiente. Senza il rischio di alcuna squalifica, senza che nessun quotidiano sportivo ne scriva, senza che qualcuno provi, insomma, ad intaccare l’immagine del bravo ragazzo dalla faccia pulita.
Che Lulic sia l’ennesimo capro espiatorio di una insulso e immeritato rimestare nel torbido, non è molto interessante: “Non prendere le cose che ho detto come un’offesa smettila di fare la vittima ed incompresa per farti felice ho preparato una sorpresa con la bomboletta ho scritto sulla luna piena aspetta che ti mostro il ca… che me ne frega”.




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