di Arianna MICHETTONI

Tutta la vita del genere umano può infine essere sintetizzata da una sequela casuale e caotica di luoghi comuni, l’ultimo dei quali è senza dubbio: l’Epifania tutte le feste si porta via. Quando infatti il 6 Gennaio arriva a colmare il vuoto lasciato dal campionato in sosta, quel che tuttavia resta in una generazione post-moderna è l’atavica incapacità di discernimento critico, che porta l’uomo ad accontentarsi di un’oralità da tramandare di formula in formula fino a credere che un’entità inesistente possa essere effettivamente costruita – con dovizia di particolari, seppur inserita in una cornice semplice ed intuitiva e, soprattutto, facile da ricordare.




Si prende dunque una storia, le si aggiunge un dettaglio inconfutabile, la si ammanta di poesia e la si tramanda ripetendola, ripetendola, ripetendola. Fino ad ingigantirla – come un gioco del telefono su vasta scala, per cui “il perdente” iniziale diventa, al termine del viaggio, un valoroso eroe caduto in battaglia. È, in una bizzarra simmetria, il principio primo della carta stampata: si racconta una grande bugia in un paragrafo di verità; la gente tende poi a crederci e a diffondere la notizia tanto da farla diventare quasi una cadenza proverbiale, qualcosa che tutti sanno e a cui il reale significato nessuno bada più.




Così, circa, nascono le leggende: lasciate al caso, ingentilite, innocue – perché, in fin dei conti, non fan male a nessuno. Ma questo non è vero, e lo si sa anche piuttosto bene: le storielle artefatte nuocciono infatti gravemente alla credibilità, qui intesa nell’accezione più vasta; poiché è chiaro che non ci si sta scagliando fieramente contro l’immagine festosa della Befana – o di Babbo Natale, del coniglietto pasquale, di Francesco Totti o della fatina dei denti. Ad incrinare la lente che filtra la realtà del calcio è questo rapporto subalterno con la concretezza sostanziale del campionato, che ritaglia ed incolla un’immagine di carta a cui assegnare un riconoscimento di cartone – purché se ne parli. Ci si scaglia fieramente, insomma, contro il titolo apparso giorni fa ad introdurre il match Genoa – roma: “clou”, secondo i massimi sistemi mediatici.




Clou, ovvero punto focale della giornata di serie A, partita più importante alla ripresa del campionato. Come se entrambe si sfidassero per la gloria; come se, al posto dei tre punti ordinari, ci fosse in palio un trofeo straordinario. E per quanto questo possa sembrare la rappresentazione di un culmine, altro non è invece che il didascalico proseguire di una narrazione enfatica tutta centrata sui giallorossi: quelli per cui la stagione inizia e finisce prima, colpa di un minutaggio tarato più sulle chiacchiere redazionali che sull’ontologia giornalistica. O sul voler dare ciò che la maggioranza eterodiretta chiede: l’illusione chiassosa di un finale a sorpresa, quando invece si è già sbirciato all’epilogo di una storia sempre uguale a se stessa.




In questo caso, la roma: tutto si riduce ad un termine indotto, dove si potrebbe ristampare un’edizione di un passato incerto e questa si andrebbe comunque ad incastrare perfettamente nel continuum temporale – tanto è sempre tutto uguale. Sin dai fasti della campagna acquisti, per cui logicamente ogni nome accostato alla lupa è il sublime tassello mancante al capolavoro giallorosso – salvo poi non essere acquistato, o la trattativa smentita; allora il già citato calciatore diventa, in un giro di parole ridondante, inutile: è già pronto un miglior sostituto da incensare. E i proclami d’Agosto, lo scudetto balneare, l’anno in cui il capitano finalmente raggiungerà il record di Piola: tutto ruota intorno alle vicende della società fondata nel 1927.




Cosa si è detto, però, delle leggende? Semplicemente, non esistono: come il mito antico serviva a spiegare il fulmine e il tuono, così la roma è una invenzione calcistica usata per appagare la necessità dell’intreccio nella fabula. Ecco dunque che a contrapporre i giallorossi vi è sempre la Juventus – ma la storia è scritta in ultimo dai vincitori, ed è certo che i bianconeri abbiano terminato la dettatura con una scrollata di spalle. L’eroe e l’anti-eroe: nonostante la distanza (abissale) di classifica e gestione, la partita contro gli strisciati torinesi assume una connotazione epica – viene resa finanche come la sfida tra “bene” contro il “male”. Una raffigurazione avvalorata dal prezioso contributo del coro greco, elemento indispensabile in quella che è certamente una tragedia, la tragedia del calcio italiano e, di riflesso, della stampa sportiva italiana.




Perché di quella roma costruita, preconfezionata, non resta che inchiostro su carta sottilissima: facile da strapparsi sotto l’evidenza di una realtà assai diversa e molto più complessa di ciò che è racchiuso nell’occhiello di un titolo. Dopotutto, pare ne uccida più la penna che la spada – anche questo, in ogni caso, è solo un proverbio.




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