di Arianna MICHETTONI

Chi sono? Da dove vengo? Dove sto andando?” Che no, non è davvero questionare sul senso della vita, quanto piuttosto l’urgenza di sapere di uno Stefan De Vrij che si trova circondato da camici bianchi e faccette fastidiosamente accondiscendenti. Gli dicono che è il miglior difensore biancoceleste, che la sua squadra sta giocando (e perdendo) contro un’improbabile avversaria, che mentre i rossoblù-gialloevidenziatore collassavano per finta lui, invece, a seguito di uno scontro con il fu Sergio Floccari 99 era svenuto sul serio.

Stefan non ricorda niente, pare, ma quelle parole attivano il suo DeVrij-Segnale (a forma di diagonale difensiva, ovviamente) quindi torna in gran fretta all’Olimpico: nello spogliatoio, con ancora in corso la partita infinita – che poi, in realtà, è finita – per rispondere alla convocazione di mister Inzaghi. Chissà quanto ci è voluto, allora, per spiegargli che era proprio vero, in una tragicomica domenica dalla temperatura estiva ma che invece era autunnale. Insomma, non era uno scherzo: il Bologna, al novantacinquesimo minuto di gioco, era in vantaggio sulla Lazio. Non per merito, certo, ma per una rincarata dose di altrui sfiga cosmica – e però come lo spieghi in olandese il concetto di sfiga cosmica? Lo sa Felipe Anderson, che gli si siede accanto con quella proverbiale pacatezza a contraddistinguerlo, e fa per mimargli un gatto. Stefan capisce e il compagno rincara la dose: uno specchio che si infrange nell’esatto momento in cui un gatto nero ti attraversa la strada, la stessa strada che percorri distratto e quindi finisci anche per passare sotto una scala, il tutto di venerdì diciassette.

Eccolo, il concetto di sfiga megaultragalattica – appena appena inferiore alla sfortuna devrijstica, che ti causa una capocciata con annessa amnesia di ritorno dall’impegno Nazionale (criticatissimo ma risoltosi in due presenze in panchina) – proprio quella Nazionale che lo ha tenuto fuori dal campo per un anno, che quindi avrebbe potuto perdonargli i quattro salti in pista dopo i quattro salti in Padeia. Perché a 23 anni (tanti erano, al momento dell’infortunio che ne ha decretato la fine di una stagione mai iniziata) quando il ginocchio cigola non a ritmo di musica ma sotto lo sferruzare dei bisturi, quanto è difficile poi restare difensori – di fatto – della propria integrità, della propria fiducia, del proprio professionismo?

Stefan, impassibile nel suo qui ed ora, annuisce – non che sia proprio tutto chiaro: gli avevano detto che la Lazio si sarebbe posizionata al secondo posto, che la Lazio avrebbe vinto 3 a 0 contro il Bologna – anche che nessuno avrebbe più attentato alla sua carriera; le tipiche rassicurazioni che precedono la proposta di rinnovo del contratto. Ma è difficile pensare che il momento propizio sia ormai sfumato: vero è che si sarebbe potuto approfittare della momentanea incoscienza per far apporre la firma su quel che altro non è che un pezzo di carta. Eppure, in fin dei conti, è così ovvio che Stefan De Vrij sia un giocatore da Lazio e della Lazio, che nessun inchiostro potrebbe certificarlo meglio.

Per quel suo aspetto pulito, tanto dentro quanto fuori dal campo; per quella sua attitudine a trovarsi al posto giusto al momento giusto, quasi senza sapere davvero come ci si è arrivati lì – spontaneo com’è, appunto spontaneamente. Per il suo saper leggere tra le righe difensive e non essere mai sopra le righe. E, soprattutto, per il voler tornare subito dai compagni, dagli amici, dal papà-Inzaghi che è ormai genitore di una Roma intera (o mezza, la parte onesta e buona) per dire loro che va tutto bene, forse fa un po’ male – ma no, non la botta in testa presa, piuttosto quel risultato perduto, quella vittoria mancata, quel secondo posto mai arrivato. Ma ancora, soprattutto, perché Stefan De Vrij è un lottatore, di quelli che cadono e si rialzano però senza battute ad effetto, fronzoli e solluccheri: si rimettono in piedi non per atteggiamento o con posa plastica ed edonistica, quanto per una diversa attitudine alla gioia e alla sofferenza – entrambe, in ogni caso, una forza. Quel carattere biancoceleste che esplode al novantaseiesimo e fa esultare per due punti persi: con gli occhi grandi spalancati di sorpresa e tuttavia il sorriso sornione, che tanto l’avversario lo si sovrasta in altezza se non in bravura e viceversa. Non a caso, la descrizione di Stefan de Vrij.

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