di Fabio BELLI

Il calcio è in grado di far nascere legami speciali, all’interno di squadre destinate a ricoprire un ruolo particolare nella storia di questo sport. Circa tre anni fa, la notizia del ritorno a Roma della salma di Giorgio Chinaglia, scomparso ormai più di quattro anni fa negli USA, alle orecchie più distratte era parsa perfettamente plausibile. In fondo la Capitale è sempre stata la seconda casa di “Long John“, anche quando l’attaccante nato in Toscana e trapiantato in Galles negli anni della sua gioventù, si era fatto conquistare dal sogno americano.

lazioPiù impressionante però fu pensare che l’ex centravanti della Lazio e della Nazionale avesse deciso di riposare per sempre accanto a quello che viene universalmente considerato il suo mentore,Tommaso Maestrelli, l’architetto del primo scudetto biancoceleste del 1974. Tra i due si era venuto a creare un autentico legame come tra padrefiglio, e chi conosce bene il background di quella Lazio, sa quanto fosse speciale e, in parte incredibile, quell’amicizia. Perché ora l’affetto e la devozione di Chinaglia per Maestrelli, proseguita per decenni anche dopo la scomparsa del tecnico nel 1976, sono cosa nota, ma all’inizio della loro storia umana e professionale i due potevano benissimo incarnare la “strana coppia” uscita dalla penna del brillante Neil Simon.

Posato, elegante, psicologicamente all’avanguardia l’allenatore, che già al momento del suo passaggio dal Foggia alla Lazio, pur in Serie B, sapeva di poter plasmare la sua creatura migliore della sua carriera. Irruente, impulsivo, capace di accendersi per un nonnulla l’attaccante, che dopo la retrocessione meditava di lasciare la Lazio soprattutto perché la discesa di categoria significò anche la separazione dal tecnico che l’aveva lanciato ed imposto in Serie A, Juan Carlos Lorenzo. E come in una sceneggiatura hollywoodiana, fu un aneddoto particolare a cambiare il rapporto, nelle prime settimane permeato di scetticismo, tra i due. Una storia legata ad un limone.

Nel 1972, fresca di retrocessione, la Lazio si trovava ad affrontare con squadre francesisvizzere ed austriache la Coppa delle Alpi. Torneo europeo minore, estivo, e alla vigilia di un match contro gli elvetici del Winterthur, Chinaglia nello spogliatoio si sentiva scottare. Aveva trentanove di febbre. Lo comunicò all’allenatore in seconda Flamini, visto che Maestrelli, prima dell’inizio ufficiale della stagione 1971/72, non poteva sedere sulla panchina della Lazio. “Long John” imboccò il tunnel e si apprestò ad uscire, quando venne fermato da Maestrelli. “Dove stai andando Giorgio?” chiese. Dove vai, “Quo Vadis“, quasi un monito di quella che per la Lazio sarebbe stata una chiamata per la storia.

“Ho la febbre, vado a casa”. E a quella risposta, la visione, folle per una squadra che doveva affrontare il campionato di B, di Maestrelli prese forma per la prima volta. “Guarda Giorgio,” gli disse prendendolo da parte, “tu lo devi fare per me. Sei ciò che può trasformare la Lazio attuale in una Lazio vincente.” Maestrelli sapeva che in biancoceleste avrebbe potuto coronare il suo sogno di creare una squadra da scudetto: a quel tempo però lo sapeva solo lui, perché la Lazio era un gruppo folle, spaccato, diviso in clan e gestito in maniera managerialmente discutibile (anche se a quel tempo era una colpa molto comune) dal presidente – papà Lenzini. “Ma mi reggo in piedi a malapena” fu la protesta di Chinaglia, che venne lasciato ad aspettare da Maestrelli nei corridoi degli spogliatoi, in attesa di un miracoloso rimedio.

Il tecnico tornò con un limone di fronte all’esterrefatto attaccante. “Bevi il succo, ti farà passare l’infiammazione. E ora, se non puoi correre, cammina: vedrai che segnerai.” Allora l’effetto placebo era una teoria in via di definizione, ed i “rimedi della nonna” per i malanni di stagione erano sempre in voga. Fatto sta che bastò mezzo limone succhiato di malavoglia per far realizzare una tripletta in quarantasette minuti a Chinaglia, che fu sostituito dopo un’ora di gioco per andarsene sotto le coperte con una Lazio sicura della vittoria (il match finì 4-1).

Ovviamente ad avere proprietà magiche non era il limone, ma la forza di persuasione che Maestrelli riusciva ad avere verso il suo figlio prediletto. Un legame che portò Chinaglia a diventare uno di famiglia in casa Maestrelli, come ricordato anche dalla moglie Lina e dai famosi gemelli, figli dell’allenatore, che divennero un portafortuna per quella strana, meravigliosa squadra. Un rapporto destinato a durare oltre la morte, ora che i due riposano insieme nella tomba di famiglia del tecnico. Come se, una volta ritrovatisi, l’uno avesse detto di nuovo all’altro: “Dove vai, Giorgio?”, e la coppia inseparabile si fosse ricomposta come dentro quello spogliatoio dell’”Olimpico“. Potenza del calcio, o per chi vuole crederci, di mezzo limone.

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